Andy Warhol con una latta di prodotti Campbell
La Biografia di Andy Warhol è divisa in sei pagine
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Un sondino irriverente.
Dopo un breve ma doveroso cenno biografico, ci addentreremo come un sondino nel corpo dell’argomento Andy Warhol, per scovare ciò che è meno apparente ma forse per questo più importante. Si raccomanda di allacciare le cinture di sicurezza, il viaggio è un po’ lungo e pieno di insidie, che potrebbero minare convinzioni ormai quasi calcificate. D’altronde il Pop è proprio questo e Andy Warhol è la Pop Art.
Dal canto nostro, abbiamo seguito la lezione, ma non annuendo, facendo finta di capire. Riteniamo sia l’artista più compreso di quanti siano i cervelli che l’abbiano esplorato.
Un esercizio, quello di dispensare incensi per ottenere facili consensi, che ci risulta simpatico come una puzzola in auto. Anche se ci provassimo risulteremmo talmente goffi da ottenere sempre l’effetto contrario, tanto siamo distanti da tali pratiche.
E poi non abbiamo studiato abbastanza, per farti capire che non hai capito ciò che non si ha da capire ma che devi far finta di aver capito. Quindi non siamo dei critici e nemmeno ci atteggiamo ad esserlo. Diciamo che semplicemente pensiamo, ma che non si dica che pensaimo semplicemente.
Ognuno deve fare la propria parte.
«Ah è lei il famoso compositore Arnold Schoenberg? »
chiese il giornalista
«Si, sono io, qualcuno doveva pur esserlo, è toccato a me»
rispose il compositore.
Bando alle ciance
Andy Warhol nato Andrew Warhola il 6 agosto 1928 a Pittsburgh, è una delle figure più emblematiche del movimento Pop Art. Figlio di immigrati slovacchi, Warhol mostrò un precoce talento per l’arte, incoraggiato da sua madre Julia Warhola. Studiò arti grafiche al Carnegie Institute of Technology, laureandosi nel 1949.
Dopo essersi trasferito a New York City iniziò a lavorare come illustratore commerciale per clienti di alto profilo, tra cui Columbia Records, Vogue, Harper’s Bazaar, NBC, Tiffany & Co. e Glamour Magazine. Negli anni ’50, acquisì fama per il suo innovativo “blotted-line technique” e per i suoi disegni di scarpe per I. Miller, che gli valsero riconoscimenti nel mondo della pubblicità.
Un passo indietro. Le origini della Pop Art
Chiariamo un punto: la Pop Art non l’ha inventata Andy Warhol, lui l’ha solo cavalcata, rendendola ancora più easy, ben lontano da qualsiasi intento di conferirle quell’alone di impegno sociale o politico, che permeava l’arte soprattutto in quegli anni di forti conflitti sociali e rivoluzioni culturali, disinteresse al mondo reale di cui la sua stessa ammissione risulta superflua.
Quindi la Pop Art non nasce in America agli inizi degli anni ’60, ma in Inghilterra alla metà degli anni ’50, fondando le proprie radici – è proprio il caso di dirlo – nel Dadaismo e nel New Dada.
Il Dadaismo, movimento artistico nato nei primi decenni del XX secolo, sfidava le convenzioni artistiche tradizionali e celebrava l’assurdo e il nonsenso come reazioni alla razionalità che aveva portato alla Prima Guerra Mondiale.
Artisti come Marcel Duchamp introdussero l’idea del “ready-made“, oggetti di uso comune elevati allo status di arte attraverso l’atto di selezione e presentazione. Questo concetto di arte come scelta e non come creazione pura è fondamentale per comprendere la Pop Art.
Il New Dada, emerso negli Stati Uniti negli anni ’50, proseguì sulla scia del Dadaismo, ma con una nuova attenzione alla cultura di massa e agli oggetti quotidiani.
Artisti come Robert Rauschenberg e Jasper Johns iniziarono a utilizzare materiali e immagini della vita quotidiana nei loro lavori, anticipando molti degli elementi che sarebbero stati sviluppati dai Pop artisti.
Il loro uso di tecniche miste e la fusione di arte alta e bassa cultura crearono un ponte diretto verso la Pop Art.
La Pop Art, pertanto, eredita dal Dadaismo e dal New Dada non solo l’uso di oggetti quotidiani e iconografie della cultura di massa, ma anche un atteggiamento di sfida verso le convenzioni artistiche tradizionali. Attraverso questo legame, si comprende come la Pop Art non sia un movimento isolato, ma piuttosto una continuazione e un’evoluzione di idee che hanno sfidato e ridefinito i confini dell’arte moderna.
Il primo a parlare di Pop fu Lawrence Alloway, un critico d’arte – manco-a-dirlo – che nel 1956 utilizzò il termine per descrivere “un’arte che avrebbe presto conquistato il mondo”. E se a dirlo è un critico d’arte c’è da crederci. La Pop Art si affermava con la “verità della televisione”, chi meglio degli americani sapeva usare i media? Insomma, era un predire o semplicemente un annuncio?
Richard Hamilton
In quell’anno, alla Whitechapel Gallery di Londra, si tenne una mostra significativa intitolata “This is Tomorrow “.
Organizzata dall’Independent Group, un collettivo di artisti legato all’Institute of Contemporary Arts (ICA), la mostra esplorava i nuovi miti della cultura di massa emergente e le tecnologie moderne come i mass media, le automobili, il cinema e la televisione.
Tra gli artisti che parteciparono, Richard Hamilton si distinse con il suo collage intitolato “Che cosa rende le case di oggi così diverse, così attraenti? “, che rappresentava la vita moderna attraverso una serie di immagini iconiche, quali: un culturista, una televisione, un registratore a bobina, una lattina di cibo in scatola, un’aspirapolvere, una donna in lingerie e un logo della Ford. Questi elementi, combinati in un collage, simboleggiavano il consumismo, la nuova tecnologia come nuovo mito e i nuovi standard di bellezza della metà del XX secolo. Che perdurano nel XXI secolo.
Di Richard Hamilton ne parliamo anche per altri aspetti più avanti.
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