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di Giovanna Genovese
Il 23 agosto del 1927, Atlantic City dava alla luce quello che sarebbe divenuto uno dei più influenti artisti del Postmoderno: stiamo parlando di Allan Kaprow, l’inventore dell’Happening.
Da spettatori a protagonisti
Il termine happening viene introdotto da Kaprow per la prima volta nel saggio del 1958 “The Legacy of Jackson Pollock”. Prendendo spunto dall’esperienza duchampiana di decontestualizzazione e risemantizzazione dell’oggetto espletata con il ready-made, Kaprow sperimenta una nuova forma d’arte il cui scopo finale è annullare la canonica distanza tra artista e pubblico, ed avvicinare arte e vita reale, al punto da renderle indistinguibili. Nell’Happening, l’artista coinvolge il pubblico e lo invita a partecipare attivamente alla realizzazione dell’opera, che lui stesso definisce: “un assemblaggio di eventi che si svolgono in più dimensioni spaziali e temporali, una pratica artistica innescata sia dal performer che dal pubblico”.
L’ambiente… giusto
Per la realizzazione delle sue opere, Kaprow si serve materiali provenienti dalla quotidianità (frutta, fogli di carta, fiammiferi, strumenti giocattolo, sacchi di tela), sempre nell’ottica di distruggere delle barriere tra vita reale e opera d’arte: oggetti deperibili, per oscurare l’aurea di immutabilità conferita classicamente all’opera d’arte, e avvicinarla alla caducità della realtà. L’artista se ne serve per realizzare un ambiente globale, che lui chiama Environments, uno spazio del caos di cui fanno parte anche lo stesso performer e il pubblico, in cui l’azione si svolge in una dimensione temporale indefinita, senza inizio né fine, spesso ripetendosi. Gli oggetti sono disposti e agitati in modo da creare uno sviluppo organico e non geometrico dello spazio, che si abbandona ad una dimensione completamente priva di logica.
Le sue performance non sono casuali, ma attentamente progettate, anche se si aprono a piccole varianti che conferiscono spontaneità all’evento, mantenendo alta la tensione -e l’attenzione!- nello spettatore.
Il primo happening, il famoso “18 happening in 6 parts”, viene organizzato nel 1959 a New York, presso la Reuben Gallery. Per l’occasione, l’artista spedisce ad amici e conoscenti delle istruzioni sui diciotto happening, e li invita alla collaborazione diretta per la realizzazione degli eventi, spiegando che si troveranno a fare da spettatori e protagonisti allo stesso tempo.
Gli Happenings riscuotono grande successo nella New York degli anni ’50 e ’60, e vengono adottate come mezzo espressivo da artisti New Dada, tra i quali Rauschenberg e Dine, esponenti della Pop Art, come Oldenburg, o della Minimal Art come Morris.
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L’idea è più dell’oggetto
Se già Pollock, spostando con l’action painting l’attenzione dal soggetto dipinto alla gestuaità del dipingere, apre le porte al concetto per cui in un’opera d’arte l’idea e il processo creativo siano più importanti del prodotto finale, Kaprow compie un ulteriore passo avanti, smettendo addirittura di produrre oggetti, impostando, invece, l’opera sulle connessioni tra idee, gesti e mondo materiale che la circondano.
Altro cardine della produzione artistica di Kaprow sono le Reinvenzioni: un’istallazione viene riprodotta anche sette o otto volte, in differenti location, e di volta in volta vengono apportate delle modifiche, per adattarla a spazi e contesti differenti. Trattandosi, dunque, di differenze sostanziali, si parla di reinvenzioni, e non di ricostruzioni. Tra le più famose Reinvenzioni, ricordiamo quelle degli Environments “Yards”, composti da centinaia di copertoni usati, e i “Fluids”, realizzati con blocchi di ghiaccio.